Cari Compagni, io dico: un grande partito non si inventa
Fa molto riflettere la violenza dell´attacco contro i Ds non tanto per gli scontati argomenti politici ma per l´armamentario ideologico (la ridicola rappresentazione del riformismo) e anche per il tentativo di delegittimarci moralmente. È evidente che si vuole colpire il maggiore ostacolo e una deriva trasformista e neo-centrista della situazione italiana. Ma se io parto da qui non è per lamentarmi ma per capire meglio la difficoltà dei problemi e l´asprezza dello scontro che già si è aperto intorno alla possibile nascita di un grande partito riformista e di governo. È per questo che sento il bisogno di discutere in modo più esplicito sul dove stiamo andando, anche con la nostra base. La quale, nella grande maggioranza, condivide - credo - il bisogno di una svolta ma sente che l´impresa in cui ci siamo messi è più grossa di come l´abbiamo raccontata finora. E, in effetti, è così. Perciò non stupiamoci troppo di un certo subbuglio. La sua ragione sta, al fondo, nell´estrema novità di una svolta che investe milioni di persone le quali, sentono sia pure confusamente, che si gioca il senso di una vita intera. Estrema difficoltà ma, al tempo stesso, estrema necessità. Il nodo è questo. Ma allora vogliamo far capire perché è necessaria questa svolta oppure abbiamo solo l´ansia (addirittura da dieci anni) di scioglierci? Io non sono d´accordo. Penso, invece che siamo davvero a un passaggio di epoca. La globalizzazione. Di per sé questa parola non dice molto perché il fatto veramente nuovo è che non si tratta solo della internazionalizzazione dell'economia ma di qualcosa che cambia la società e cambia e la natura e quindi il pensare, cioè come gli uomini pensano se stessi e i significati del loro esistere. E quindi cambia anche la politica (quella vera, non i giochi di Palazzo). Qualcosa di paragonabile - per fare un solo esempio - alla fine della civiltà contadina, e all'avvento della rivoluzione industriale. Fu inevitabile inventare nuovi partiti: i partiti operai. Così oggi. Sta qui il bisogno di una nuova soggettività politica molto più aperta al mondo e al futuro. Perciò non è assurdo chiedere (anche se è necessario) l'ancoraggio al socialismo del Novecento. Io penso all'anacronismo di certe polemiche tra fede e ragione che rivelano la grande difficoltà di fare i conti su come sta cambiando il cervello delle persone. Ed è evidente il perché. Più la natura perde il carattere di regno della certezza e dell'eterno - e dunque quella millenaria funzione di costituire le mura all'interno delle quali si muoveva tutto il pensiero sulla vita umana e sul suo destino, quanto più essa (natura) si rivela sempre più manipolabile da parte della tecnica e della scienza tanto più abbiamo bisogno di un nuovo pensiero sulle ragioni del vivere. Anche i politici se non sono dei mestieranti. Perché senza una nuova idea di futuro diventa inevitabile che le società moderne si disgreghino oscillando (come sta già avvenendo) tra un cinico «carpe diem» schiacciato sul presente (un mondo governato solo dall'egoismo sociale e dello scambio economico) e nuove forme di fondamentalismo religioso. Viene di qui - a me pare - la necessità di una nuova etica che per me laico consiste in un integrale umanesimo morale, le cui regole siano in grado di orientare, laicamente, cioè attraverso la politica e il suo progetto storico, la tecnica e l'economia. Qualcosa che ci spinge non ad accantonare il pensiero classista ma a misurarne il limite. Un nuovo umanesimo che parte dal fatto che: in un mondo incerto perfino sulla sua sopravvivenza fisica l'unica certezza è la volontà dell'uomo; e un mondo così interdipendente per cui l'ideologia più avanzata è il pensiero della convivenza e della cooperazione. A sua volta l'umanesimo cristiano continuerà a sostenere un progetto ultraterreno ma dovrà pur tener conto della nuova soggettività umana. E anche la tradizione liberale dovrà rivivere in forme tali da riconoscere che non basta la «libertà dà», senza cioè una più alta responsabilità sociale. Io non credo che dire queste cose sia un parlar d'altro. Penso, invece sia questo bisogno di un rapporto fra etica e politica mai sperimentato finora che dovrebbe diventare il retroterra di un nuovo schieramento. Così si fanno i partiti. Ma questo richiede un lavoro enorme, che nessuna delle tradizioni oggi in campo può sperare di condurre da sola. Una cosa è certa. La politica ha sempre più bisogno di pensiero e di cultura. Vincerà chi lo capisce prima. È chiaro allora perché certe dispute su «morire» oppure no socialista hanno poco senso. Tutti dobbiamo uscire dai vecchi confini. Ma se di questo si tratta dobbiamo anche essere convinti che questa impresa è destinata a fallire se si riduce a una combinazione elettorale tra vecchi partiti. Riuscirà solo se apparirà ai giovani, alle donne, al popolo di sinistra e al mondo che lavora come l'apertura di un nuovo orizzonte, cioè qualcosa che riguarda loro, (non il ceto politico) che tocca la loro vita e che da ad essa un senso, un significato. Che, sia, quindi finalmente, una riforma anche morale della politica. I partiti non si inventano. Essi nascono vitali solo se «fanno storia», cioè solo se assolvono a un ruolo nazionale. Io è a questo ruolo che credo. E non starò qui a ripetere perché l'Italia è arrivata a un appuntamento con la sua storia, nel senso che in mancanza di una nuova guida politica (un partito nazionale) rischia di assistere al ripetersi della triste vicenda del «600 quando non resse alla sfida delle più grandi trasformazioni del mondo di allora (la nascita degli Stati nazionali europei a fronte delle nostre rissose repubblichette) e finimmo ai margini, non contammo più niente, ci impoverimmo e diventammo per secoli «una espressione geografica». Questo è chiaro e l'abbiamo già detto e scritto molte volte. Ma la questione su cui bisogna ragionare ancora è la seguente. Non siamo più nel 900, il secolo in cui lo Stato nazione aveva la forza di imporre un compromesso democratico al suo capitalismo nazionale. Sono ormai venuti meno (o sono stati svuotati) gli strumenti in forza dei quali la sinistra ha combattuto e si è fatta valere: dal suffragio universale alla organizzazione di una democrazia partecipata attraverso partiti, sindacati, associazioni, riviste, giornali ecc. In sostanza, attraverso i diritti di libertà ma anche di cittadinanza garantiti fino a ieri dallo Stato nazionale. E allora la domanda è: in queste nuove condizioni storiche come può un partito svolgere una funzione reale, autonoma, senza organizzarsi in partenza come una forza di rango europeo potendo essere solo l'Europa quell'attore politico mondiale veicolo di una nuova civilizzazione? Questo devono capire gli amici della Margherita. E senza misurarsi con le due grandi conseguenze di questo tipo di mondializzazione. Le quali sono 1) la sconfitta della politica ridotta a sottosistema locale di una economia globalizzata dominata da una ristretta oligarchia finanziaria che muove le ricchezze del mondo; 2) la crisi della democrazia. Perciò la vecchia politica si è svuotata, e le nostre dispute rischiano di essere vane e ognuno può divertirsi a proporre quello che vuole (il socialismo oppure la luna nel pozzo) ma poi altri prenderanno le grandi decisioni, quelle che non sono nemmeno più alla portata degli Stati nazionali. E le conseguenze sono quelle che vediamo: i partiti personali, il populismo dei capi carismatici e la democrazia ridotta a strumento tecnico non più rivolto a rappresentare la gente comune e a organizzare la loro partecipazione alla vita statale ma essenzialmente a rendere possibile la formazione delle nuove elites. E infatti la legge elettorale - come sappiamo - non elegge ma nomina i prescelti. Il tutto sulla base di un impressionante condizionamento delle menti fatta dalla Tv e dai media, non a caso di proprietà di quella stessa oligarchia. Esagero ma mica tanto. Basta osservare come si accentuano giorno dopo giorno, i fenomeni di disgregazione sociale e le spinte alla violenza e anarchismo. Ed è evidente che questo è il nodo di cultura della destra. Perciò stiamo attenti. La democrazia è a rischio perché si è creato un vuoto che il riformismo debole di questi anni non ha riempito. Siamo sinceri. Non sottovaluto certe conquiste come partito. Per esempio i sindaci. Ma nella sostanza ciò a cui abbiamo assistito in questi anni non è il riformismo ma una brutale e profonda redistribuzione del lavoro e della ricchezza, quale da decenni non appariva così ampia ed intensa. È nata una nuova classe di super ricchi (con stipendi di alcuni milioni di euro all'anno) mentre la massa dei pensionati non arriva a 600 euro al mese e i salari spesso precari prendono terreno. Questo è il dato. È la scomparsa perfino di quella che fu la borghesia mentre anche il ceto medio si frammenta. Le differenze diventano abissali. Così si spiega, al fondo, la sostanza della crisi italiana: un paese che non riesce a competere ai massimi livelli per la mancanza di una ossatura e di un assetto politico capace di prendere grandi decisioni di riforma. Il governo sta rimettendo in moto questo paese ma non andrà lontano se un processo politico unitario non rimetterà in gioco la società, le persone, il capitale umano. Il governare non è più separabile dalla necessità di ricostruire un tessuto e un potere democratico. La democrazia intesa non solo come Stato, regole e istituzioni ma anche come riconoscimento dei nuovi diritti della persona, del lavoro intelligente, delle nuove capacità delle donne. E quindi democrazia come autogoverno, responsabilità, partecipazione, inclusione e solidarietà. Perciò non basta un blocco elettorale. Abbiamo bisogno di un grande partito.
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